Plath Sylvia // Sylvia Plath ›Literature ›Culture ›Nonfiction – La Redazione

Sylvia Plath in “Lo specchio e l’anima” – La Redazione

OLMO

Conosco il fondo, dice. Lo conosco con la mia grossa radice:
è quello di cui tu hai paura.
Io non ne ho paura: ci sono stata.

È il mare che senti in me,
le sue insoddisfazioni?
O la voce del nulla, che era la tua pazzia?

L’amore è un’ombra.
Come lo insegui con menzogne e pianti.
Ascolta: ecco i suoi zoccoli: è corso via, come un cavallo.

Per tutta la notte galopperò così, impetuosamente,
finché la tua testa non sarà una pietra, il tuo cuscino una zolla,
rimandando echi ed echi.

O vuoi che ti porti il suono dei veleni?
Ecco, questa è la pioggia ora, questo grande azzittirsi.
E questo è il suo frutto: bianco-stagno, come arsenico.

Ho patito l’atrocità dei tramonti.
Bruciati fino alla radice
i miei filamenti rossi ardono ritti, una mano di fili di ferro.

Ora mi rompo in pezzi che volano intorno come clave.
Un vento di tale violenza
non tollera neutralità: devo urlare.

Anche la luna è spietata: vuole trascinarmi
crudelmente, lei che è sterile
Il suo splendore mi folgora. O forse l’ho catturata.

La lascio andare. La lascio andare
diminuita e piatta, come dopo un intervento radicale.
Come mi possiedono e mi colmano i tuoi brutti sogni.

Sono abitata da un grido.
Di notte esce svolazzando
in cerca, con i suoi uncini, di qualcosa da amare.

Mi terrorizza questa cosa scura
che dorme in me;
tutto il giorno ne sento il tacito rivoltarsi piumato, la malignità.

Le nuvole passano e si disperdono
Sono quelli i volti dell’amore, quelle pallide irrecuperabilità?
È per questo che agito il mio cuore?

Sono incapace di maggiore conoscenza.
Che cos’è questo, questa faccia
così assassina nel suo strangolio di rami? –

Sibilano i suoi acidi serpentini.
Pietrificano la volontà. Queste sono le colpe isolate
e lente che uccidono e uccidono e uccidono.

19 aprile 1962, Sylvia Plath
(traduzione di Giovanni Giudici)

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Siamo di fronte ad un altro capolavoro di Sylvia Plath, e lo riconosciamo nell’insistita ricerca per evidenziare i punti focali e i nuclei fondanti della sua poetica, che si  costruisce e colora sulle pagine, sorgendo come un fiore perfetto, i cui petali vibrano nella melodia delle note che fuoriescono dal testo. L’impressione che si prova, leggendo i primi versi di “Olmo”, è che Sylvia Plath stia dialogando, con un non ben precisato interlocutore, nel mezzo di un’ampia vallata coperta da un orizzonte oscuro, in una fredda notte d’inverno.

Di fatto, Sylvia Plath parla a se stessa della smisurata ed imponderabile vastità che avvolge il suo essere, proiettandolo in qualcosa di non manifesto e intangibile, in uno spazio imprecisato, un’infinità senza suoni, né luci e colori. Sylvia Plath è assorta, presa da una contemplazione quasi fuori dal tempo e dallo spazio, è in una dimensione altra e sconosciuta, laddove le è possibile parlare alla sua anima per incontrarsi e riconoscersi.

Nei versi d’apertura Sylvia Plath dichiara subito di aver percorso e scandagliato i fondali di oceani oscuri, di aver incontrato e compreso l’indefinito, l’imponderabile condizione del ritrovarsi a vivere. E in questo labirinto di specchi, che sono le pareti di un’immensità senza luce, mai si è fermata, nemmeno quando ogni certezza si sbriciolava inesorabilmente.

Sylvia Plath è riemersa, risalendo le pareti scivolose di una dimensione sconosciuta a chi vive fidandosi solo dei cinque sensi. Nel suo viaggio ha esplorato il fondo buio delle immense profondità marine, che fanno da specchio alle distanze profonde degli ignoti universi. Ora, al termine di questo viaggio di conoscenza, si ritrova a raccontarsi e ad ascoltare se stessa. Il suo è un aperto colloquio con l’anima: magnifica e spontanea sorge l’immagine di Sylvia Plath che fissa i suoi occhi nel volto etereo ed evanescente del suo io segreto, la coscienza dell’essere lastricata dall’insolvenza che questa realtà procura all’uomo.

Sylvia Plath ha colto in sé un’intima e segreta pulsione e ha liberato l’essenza nascosta che la rende tremendamente smaniosa di pervenire alla fruizione dell’Assoluto. La sua chiaroveggenza esplode improvvisa e si consuma presto nell’invisibile suggestione di una memoria del cuore, che la attraversa come un lampo, materializzandosi in una visione lontana: è un ricordo dolente, riferibile ad una comunicazione d’amore mancata nel passato,  ad una non riuscita condivisione dell’universo magmatico di emozioni che sempre s’affollano, cercando un essere (l’Assoluto) in cui specchiarsi e riconoscersi.

Si avverte un’inquietudine drammatica, Sylvia Plath sembra fare riferimento all’eterno dubbio che le vietava di individuare la giusta via per raggiungere la completezza dell’amore. Si presti attenzione al verbo declinato al passato (vietava), volutamente scelto per dichiarare che, al momento in cui parla e si racconta, si è liberata dall’ossessionante domanda sul ‘chi’ e sul ‘cosa’ possa costituire la sostanza dell’amore.

Finalmente non ha più nessuna perplessità, lei ha compreso d’essere la personificazione dell’amore, amore come perfezione e geometria dei mondi, e, dunque, eterna circolarità del divino. E questa dichiarazione non è narcisismo, perché ogni persona, volendo sentirsi tale, deve necessariamente ammettere di essere la risultante di un atto d’amore, che, attraverso un alito d’infinito, unisce e trasforma la materia in vita. Chi non riesce a pervenire a questa consapevolezza vivrà di inutili e sterili rimpianti, che, di fatto, assillano e bloccano l’empatica comunicazione con l’ Oltre e, dunque, con Dio che l’uomo rappresenta.

Questo riferimento all’amore è il segno di una fede e di una rinascita: Sylvia Plath sente in sé una scintilla che balena nelle profondità dell’essere e che niente e nessuno potrà mai sopprimere, perché fatta della stessa sostanza divina. Si tratta di una scintilla d’amore che è bene assoluto ed inesauribile, quello per cui le ombre saranno entità assolute e prossime all’unica e superlativa fiamma che arde e che si chiama Dio.

Certamente il dolore della vita congela aspettative e aspirazioni in un limbo che macchierà i verdi campi, come quando il tempo cambia e cadono le foglie sui mantelli erbosi della nuda e vergine terra. Ma la percezione dell’ Altrove emancipa e libera il candore dell’anima di Sylvia Plath che, dall’alto delle sue intuizioni e divinazioni, può riconoscere l’esistenza come un cammino che, per quanto difficile ed irto di ostacoli, lascia pur sempre uno spiraglio, una possibilità altra per salvarsi dall’abisso del nulla.

Ne deriva che siccome l’amore è pura essenza e armoniosa manifestazione di Dio, non si può pretendere di comprenderlo in sé, offrendo lusinghe e cercando commiserazione. L’amore è da intendersi come donazione e comunione, sommo bene, passione infinita e cristallina, impalpabile ed eterna. Questo amore sconosciuto assume allora i tratti dell’armonia e della perfezione, dell’equilibrio tra tutte le molteplici e smisurate forze che assecondano e governano gli universi paralleli, che incontrandosi diventano l’uno fuoco dell’altro.

Di questi universi Sylvia Plath ne conosce l’ignoto, sa immergersi in essi e ritrovarsi tra altre correnti, altre e perciò stesso magnifiche, figlie di quella perfezione di cui in altro luogo si è già detto. La perfezione: un mistero che Sylvia Plath insegue, con la ferma intenzione di ricercare e demistificare i postulati e gli assiomi che escludono la volontà dell’uomo di sentirsi parte attiva e sostanziale dell’eterno. Il tema dell’armoniosa perfezione, o scienza del tutto, diventa occasione e motivo per approfondire i termini di una ricerca ermeneutica che centra l’attenzione sulla natura dell’amore, unica vera ragione dell’essere.

Giunge da lontano quest’amore, con rapidi passi,  e subito si muove libero e sciolto al galoppo. Sono sprazzi di luminose visioni: l’amore/perfezione simboleggia una vastità ermetica e misteriosa, un’energia sovrumana e oscura offuscata dall’indifferenza degli uomini.

È così che Sylvia Plath sente la vita: sentirsi libera, fuori ed oltre gli schemi e le forme umane, assaporarne il gusto in altre placente, nascere e morire in tempi e spazi diversi, laddove si può essere testimoni di verità. Da quelle altezze, da vette di altri mondi, Sylvia Plath si racconta, la sua parola messianica le permette di spargere semi di verità, messaggi di amore e conoscenza.

La tensione meditativa di Sylvia Plath si approfondisce nei versi, e si trasforma in torsione emotiva che la proietta, non solo oltre i confini terreni, ma oltre gli stessi margini del possibile, per espandersi e assimilarsi alla materia cosmica che tutto pervade, colorando il buio e dando voce al silenzio.

E la vediamo, Sylvia Plath, la donna/angelo/Dio, con quel suo sguardo penetrante di fronte al creato, pronta a commuoversi e a rendersi partecipe delle meravigliose sensazioni che le pervengono dai variegati e sconosciuti spazi, dalle dimensioni senza volto, come se percepisse messaggi di altri mondi da annotare sul foglio, decifrandone il contenuto. I suoi sono lampi di lucido pensiero, suggestioni connotate di lirismo-critico che è sottile canto e rivisitazione delle circostanze intervenute nella storia umana. Ed è certo che di storia si tratta, della storia di chi si ritrova solo allo specchio e si riconosce e dialoga lungamente con la sua faccia nascosta, quella che gli altri velano con bugie e menzogne, le stesse che lei sa di smentire nel compiuto presagio della sua morte.

Nello sviluppo del testo, Sylvia Plath individua le circostanze reali e naturali, gli eventi che falsificano la percezione dell’infinito, offrendo di esso un’immagine distorta, quasi che seducenti mattini s’aprissero ancora sui laghi dopo pioggia lucente. Ma dai languidi paesaggi, l’angelo/donna non riceve più emozioni, anzi comprende che i tramonti sono così crudeli da stravolgere i suoi pensieri, pietrificandola. E continuando a girare le scene/documento della sua vita, riconosce alle notti di luna la colpa di accendere effimere luci che spietatamente nascondono la vastità infinita.

Ma i castelli di sabbia cadranno sotto i colpi del vento segreto, al soffio della sua anima che freme e dice. Nessuna luna incanterà più Sylvia Plath, che di notte sente un tumultuoso impulso levarsi smanioso, un irrefrenabile impulso ad afferrare l’amore nella sua integra assolutezza. È un fremito assopito e sferzante che atterrisce in un formicolio che assale, sviluppando tante fantasie che assumono strani volti, sembrano strisce di nuvole che si agitano invano nel cielo.

Trepidante resta a fissare ogni scia, come cercando segni, lampi di prismatica fiamma. Ma nella bruma, nel caos dei pensieri che s’attorcigliano, sente solo una vertigine di mente e cuore, mentre tragicamente stride una voce nel “fondo”, come una velenosa serpe che raggela la sua scienza, nel giorno che cede il passo alla notte…

La Redazione

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